“Ogni popolo ha il governo che si merita.”
— Joseph de Maistre
C’è un’immagine che ormai incarna il governo Meloni meglio di qualsiasi programma elettorale: il sopracciglio sollevato, la smorfia sdegnata, la voce ferma che detta la linea come fosse legge morale prima ancora che politica. Da mesi – anzi, da anni – Giorgia Meloni si presenta non come presidente del Consiglio, ma come una missionaria del potere.
Una leader “che non commenta i sondaggi”: perché tanto li riscrive. Non si limita a guidare un governo, lo occupa. Non convince il paese, lo satura. Ogni canale di comunicazione, ogni spazio pubblico, ogni atomo dell’informazione è pervaso dalla sua voce, dai suoi toni perentori, dal suo immaginario cupo e muscolare.
È riuscita in un’impresa che pareva impossibile: rendere maggioritaria una destra minoritaria, normalizzare il linguaggio della diffidenza, istituzionalizzare la paranoia come criterio di governo.
L’accordo con l’Albania per confinare i migranti in strutture offshore, lontano dal suolo italiano e soprattutto dall’opinione pubblica, è solo il simbolo più evidente. L’Italia esporta i suoi problemi, li rimuove fisicamente. In compenso, importa slogan d’oltreoceano.
Giorgia Meloni guarda a Donald Trump come a un faro, nonostante la retorica da alleata lealissima della NATO. Non ha mai nascosto l’ammirazione per chi costruisce muri, insulta le minoranze, dichiara guerra ai media. Se Trump è il modello, l’Italia diventa una sua imitazione in scala, una copia adattata ai toni del tricolore e alla grammatica del “Dio, patria, famiglia”.
Sotto il suo governo, il riarmo torna al centro: l’Italia spende sempre più in Difesa, partecipa alla corsa globale alla militarizzazione, si allinea con entusiasmo alle politiche interventiste, purché ben lontane dai diritti umani.
Sul fronte dei diritti civili, il copione è altrettanto prevedibile quanto feroce. I Gay Pride diventano eventi “divisivi”, le famiglie arcobaleno vengono invisibilizzate, le parole contano più dei fatti: “Nessuno discrimina”, dice, mentre taglia i fondi, blocca le registrazioni, lascia proliferare un clima di sospetto verso tutto ciò che non è conforme alla “normalità”.
Il dissenso viene delegittimato, ridicolizzato, ridotto a una caricatura: “la sinistra radical chic”, “i buonisti”, “i mondialisti”. Persino l’opposizione parlamentare viene trattata come fastidio, come zanzara da scacciare con un’alzata d’occhi.
La stampa? Divide tra amici e nemici. La Rai è tornata organo di partito, l’informazione addomesticata, le domande critiche guardate come provocazioni. Lucia Annunziata? Andata. Fabio Fazio? Migrato. Da Lilli Gruber, Meloni non si fa vedere neppure in cartolina. Meglio monologare sui social, dove può bloccare chi non applaude.
Sul piano istituzionale, il progetto è ancora più inquietante: si parla apertamente di premierato, cioè di concentrare il potere esecutivo nelle mani di un solo capo, svuotando ulteriormente il ruolo del Parlamento. Il presidenzialismo soft, versione italiana: una riforma che potrebbe durare più di qualsiasi legislatura e cambiare la natura stessa della Repubblica.
Eppure, Giorgia Meloni è sempre lì. In cima ai sondaggi. Applaudita anche quando sbaglia, giustificata quando mente, santificata quando si arrabbia. Un consenso che non si spiega con i risultati – stagnazione economica, sanità pubblica in affanno, salari al palo – ma con la capacità di occupare l’immaginario collettivo.
Il suo successo non è nella soluzione dei problemi, ma nella costruzione dei nemici: i migranti, i giornalisti, le femministe, gli studenti, la sinistra, la Francia, l’Europa, e ogni tanto pure Mattarella, se non si allinea.
Siamo di fronte a un governo che governa con la paura, alimentandola. Che regna senza contrappesi, perché li ha anestetizzati. Che parla di popolo, ma ascolta solo sé stesso.
Intanto, l’opposizione si frantuma in mille distinguo, in comitati etici, in liturgie senza eco. Elly Schlein sembra fuori tempo massimo, Conte cerca di accontentare tutti e non convince nessuno, Calenda e Renzi si accoltellano tra i decimali.
E così, giorno dopo giorno, prende forma il “ventennio 2.0”: senza stivaloni e camicie nere, ma con slogan, decretini e dirette social. Un potere apparentemente democratico, profondamente autoritario.
Eppure, il paese tace. Oppure applaude.
Giù la maschera, Italia.
Non possiamo dire che non ci avevano avvertiti.
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