L’ editoriale del Direttore Daniela Piesco

Ogni tanto, persino nella palude della politica italiana, spunta una notizia che riaccende un barlume di fiducia nelle istituzioni. Oggi quel barlume si chiama Corte di Cassazione, che ha fatto ciò che raramente accade: ha chiamato le cose col loro nome. Il decreto sicurezza del governo Meloni? “Una prepotenza governativa”, punto e basta. Non un tecnicismo, non un cavillo: una sentenza che suona come uno schiaffo morale.

La storia è grottesca nella sua semplicità: un disegno di legge sulla sicurezza, che avrebbe dovuto essere discusso, smontato e rimontato in Parlamento (dove, ricordiamo, siedono i rappresentanti degli italiani), è stato trasformato in decreto-legge per aggirare il dibattito. Peccato che la Costituzione permetta i decreti solo in casi di emergenza reale e indifferibile. E l’emergenza? Sparita. Evaporata. “Non pervenuta”, come direbbe un portalettere sfinito. I giudici non hanno usato mezzi termini: il governo ha preso un testo destinato all’Aula, lo ha riciclato tale e quale in un decreto, e ha preteso di farlo passare per urgenza. Risultato? Un doppio sfregio: alla funzione legislativa del Parlamento e al principio cardine della democrazia — la separazione dei poteri.

Ma c’è di più. Mentre Palazzo Chigi provava a far digerire questa forzatura, spunta il secondo atto della farsa: cinque poliziotti dell’antiterrorismo sono stati beccati mentre s’infiltravano in Potere al Popolo, un partito di opposizione. La giustificazione? Un silenzio imbarazzante, rotto solo da qualche paragone goffo con le inchieste di Fanpage. Qui casca l’asino, come si dice. Perché equiparare giornalisti che svolgono inchieste (legittime, anche se scomode) a funzionari di Stato che spiano l’opposizione politica è come confondere un bisturi con un’accetta. Il primo serve a dissezionare la realtà; la seconda a mutilarla.

Il paradosso è agghiacciante: un governo che si proclama baluardo della democrazia, mentre:
– sgretola il Parlamento con decreti-fantasma, privi di urgenza ma pieni di prepotenza;
– manda uomini dell’antiterrorismo a controllare chi lo critica, come in una spy story di bassa lega.

E il bello? Che tutto questo avviene mentre si recita la litania dell’”allarme autoritarismo”. Ma quale allarme? Qui l’autoritarismo non bussa alla porta: si è già accomodato in salotto, si è versato un bicchiere di Brunello e sta sfogliando la Costituzione per vedere quali articoli strappare domani.

La stangata finale?
La Cassazione non ha solo bocciato un decreto: ha diagnosticato una malattia istituzionale. Ha ricordato che la democrazia non è un optional da sospendere quando dà fastidio, ma un meccanismo delicato che si inceppa se lo si forza con la violenza. Quando uno Stato usa gli strumenti dell’emergenza per evitare il dibattito e le forze dell’ordine per controllare il dissenso, non sta combattendo il caos. Lo sta creando. E la sentenza di oggi è più di un monito: è un certificato d’incapacità democratica rilasciato a chi dovrebbe custodirla.

Morale: se questo è “proteggere la sicurezza”, allora la parola “sicurezza” ha smesso di significare qualcosa. O forse, semplicemente, significa solo una cosa: silenzio. Quello che avanza quando lo Stato decide che la democrazia è un lusso, e il dissenso un reato.

ph Pixabay senza royalty

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