di Carlo di Stanislao

“Non si riceve la saggezza, bisogna scoprirla da sé, dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché essa è una visuale sulle cose.”
— Marcel Proust

La frase di Proust è un monito e una condanna. Ci obbliga a guardare in faccia la realtà senza più filtri, senza più consolazioni. Scoprire la verità significa affrontare un viaggio personale e collettivo che nessuno può abbreviare per noi. È un invito a non fidarci della narrazione dominante, a riappropriarci dello sguardo critico, a leggere la storia non solo per come ci è stata raccontata, ma per come si è davvero svolta. E se c’è un Paese che ha un disperato bisogno di questa saggezza conquistata, è proprio l’Italia.

Una Repubblica sotto tutela fin dal primo giorno

L’Italia repubblicana nasce nel 1946, ma la sua sovranità reale inizia e finisce nei limiti consentiti dagli equilibri internazionali del secondo dopoguerra. L’egemonia americana si impone subito, in modo inequivocabile, già con le elezioni del 1948: un intervento massiccio, diretto e indiretto, degli Stati Uniti evita la vittoria del Fronte Popolare tra PCI e PSI. Quella tornata elettorale sancisce una verità non detta: l’Italia potrà essere democratica, ma solo entro i confini fissati da Washington.

Da quel momento in poi, ogni scelta strutturale di politica estera e di sicurezza passa dal filtro americano. L’Italia entra nella NATO, accoglie decine di basi militari statunitensi, accetta di rinunciare a una propria linea geopolitica, si adegua al pensiero unico atlantico. In nome della stabilità e dell’occidente, si sacrifica l’indipendenza. Con l’avallo di una classe dirigente che, salvo poche eccezioni, preferisce obbedire anziché trattare.

La sudditanza come regola politica

Questa subordinazione si traduce in una lunga serie di atti silenziosi, compromessi mai dichiarati, rinunce strategiche. I dossier energetici vengono condizionati da interessi esterni; la politica mediterranea è sempre più prudente, timorosa di infastidire Israele o l’Arabia Saudita, a seconda delle stagioni; le relazioni con l’URSS restano fredde e sotto controllo, anche nei momenti di possibile dialogo. Ogni volta che un governo italiano si affaccia con ambizioni di protagonismo, arriva una telefonata risolutiva, o un messaggio diplomatico, per ricordare i limiti invalicabili.

Non è solo una questione di diplomazia: è una logica sistemica, culturale, economica. L’Italia viene progressivamente modellata come alleato docile, utile ma mai indipendente, mai disallineato. È il prezzo pagato per far parte del club occidentale: la sicurezza garantita in cambio del silenzio.

Bettino Craxi: l’uomo che osò dire di no

In questo panorama di obbedienza trasversale, Bettino Craxi fu un’anomalia. Non un rivoluzionario, non un antiamericano, ma un leader che pretendeva per l’Italia il rispetto dovuto a una grande nazione. Da Presidente del Consiglio, Craxi mostrò per la prima volta una postura diversa: autonoma, assertiva, propositiva.

Il momento simbolico fu lo scontro di Sigonella nel 1985. In seguito al dirottamento della nave Achille Lauro, gli Stati Uniti, guidati da Ronald Reagan, decisero di catturare i responsabili con un blitz unilaterale in Sicilia. Ma Craxi si oppose. Rivendicò la giurisdizione italiana, ordinò ai carabinieri di bloccare i marines americani, e costrinse gli alleati a un clamoroso dietrofront. Fu un atto di sovranità pura, un momento rarissimo in cui l’Italia scelse la propria dignità anziché l’obbedienza. E fu l’inizio della fine.

La solitudine del coraggio – e degli errori

Quel gesto segnò Craxi. Da allora in poi, fu visto con sospetto dalle cancellerie occidentali, dagli apparati interni, da una parte del suo stesso partito. La sua posizione in politica estera – filoaraba, mediterranea, laica – era troppo distante dagli interessi statunitensi. E la sua gestione del potere, pur ambigua e compromissoria, veniva interpretata come pericolosamente autonoma.

Ma anche tra i suoi pochi, pochissimi “capitani”, la sua visione non fu compresa fino in fondo. Claudio Martelli, pur brillante e moderno, rimase sempre legato a una logica di compatibilità con il potere dominante. Gianni De Michelis fu lucido sul piano tecnico, ma politicamente timido. Luigi D’Amato, potente dirigente, si mosse nel solco delle logiche consolidate. Non capirono fino in fondo che Craxi stava tentando qualcosa di ben più radicale: un cambio di postura dell’Italia nel mondo.

Chi invece colse a fondo quella visione fu Domenico Susi: figura meno nota, più defilata, ma intellettualmente limpida. Susi comprese il senso del conflitto in atto: la battaglia non era solo contro la magistratura o i media, ma contro un modello di dipendenza culturale e geopolitica. E fu tra i pochi a non voltarsi dall’altra parte quando Craxi divenne un bersaglio isolato.

Il caso Lockoid: la scandalosa differenza

Un esempio eclatante è il caso Lockoid – sconosciuto ai più, ma rilevantissimo. Un’intricata vicenda industriale e politico-militare, con potenziali responsabilità trasversali. Ma, a differenza di Tangentopoli, Lockoid fu “raffreddato” subito, quasi neutralizzato. Secondo fonti giornalistiche e analisti, furono gli stessi americani a intervenire in favore dell’esecutivo italiano, per evitare che emergessero nomi e legami pericolosi.

Una vicenda che dimostra quanto la giustizia in Italia abbia camminato – e cammini ancora – a due velocità. C’è chi paga per tutto, e chi viene protetto per ragioni geopolitiche. C’è chi cade per un finanziamento illecito, e chi sopravvive a manovre milionarie se gode dell’ombrello giusto.

Il crollo della Prima Repubblica: rivoluzione o disegno?

La fine della Prima Repubblica viene raccontata come una reazione spontanea del popolo onesto contro i partiti corrotti. Ma questa versione è incompleta. Il disegno di Tangentopoli – sebbene nato da una vera indignazione civile – fu orientato in modo selettivo, e soprattutto accolto con entusiasmo dalle potenze occidentali. Con la fine della Guerra Fredda, l’Italia doveva cambiare pelle. La classe politica che aveva retto l’equilibrio della Guerra Fredda – PSI, DC, PRI – diventava ingombrante. Servivano nuovi interpreti, nuovi manager, nuove élite più adatte alla globalizzazione e meno inclini all’indipendenza.

Il prezzo dell’oblio

Oggi, a trent’anni da quella frattura, si fatica ancora a fare i conti con quei passaggi. Craxi resta un nome che divide, quando invece andrebbe studiato con la freddezza che si riserva agli statisti, non agli imputati. Tangentopoli viene celebrata come un’epopea giudiziaria, ma raramente analizzata come un colpo di scopa che ha spazzato solo dove conveniva.

In tutto questo, il cittadino resta spesso spettatore. Ecco perché Proust è attuale: “la saggezza è una visuale sulle cose”. Ma quella visuale non arriva da sola. Va cercata, conquistata, imposta a se stessi. Nessun governo, nessun giornale, nessun potere potrà mai regalarcela. Per comprendere la nostra storia – e dunque noi stessi – dobbiamo smettere di delegare. Solo così potremo uscire dalla nebbia delle verità comode, e vedere l’Italia per ciò che è stata davvero.

Perché solo chi conosce la verità può costruire il futuro. Gli altri lo subiranno.

 

pH Wikipedia

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