“La realtà è un’illusione, anche se molto persistente.”
— Albert Einstein
Come facciamo a sapere che ciò che vediamo è reale — o almeno, che lo vediamo come lo vedrebbero tutti gli altri? È una domanda antica quanto l’atto stesso del guardare. Eppure, nelle neuroscienze, nella psicologia e nella vita quotidiana, diamo spesso per scontato che la percezione visiva sia universale, automatica, biologicamente programmata. Un riflesso fedele del mondo esterno. Ma cosa succede se anche lo sguardo è una costruzione culturale?
Uno studio recente, pubblicato su PsyArXiv e discusso su Science, ha messo in discussione l’universalità della visione umana attraverso un esperimento interculturale su sei illusioni ottiche. I ricercatori hanno coinvolto tre gruppi: persone cresciute in paesi industrializzati (Stati Uniti e Regno Unito), abitanti di un centro semiurbano in Namibia e membri di villaggi rurali Himba. Le illusioni erano progettate per attivare meccanismi visivi “basilari”, legati alla struttura stessa del sistema percettivo, non a interpretazioni consce.
Il risultato più sorprendente è emerso con la Coffer illusion, una griglia geometrica che può essere vista come rettangoli o come cerchi che emergono tra le linee. Il 97% dei partecipanti occidentali ha visto subito i rettangoli. Ma il 96% degli Himba ha visto prima i cerchi, e circa la metà di loro non è riuscita a identificare i rettangoli neppure dopo stimoli espliciti. Il gruppo intermedio ha mostrato risposte più varie. L’illusione, dunque, non inganna tutti nello stesso modo: ciò che vediamo dipende in parte da dove — e come — siamo cresciuti.
L’uomo vede solo ciò che conosce
L’idea che la visione non sia neutra ma interpretativa non è affatto nuova. La esprime con precisione Johann Wolfgang von Goethe nella sua Teoria dei colori (1810), affermando:
“L’uomo vede solo ciò che conosce.”
Per Goethe, il vedere è già un atto del pensiero: uno sguardo privo di esperienza non coglie ciò che pure ha davanti. Lo sguardo non è uno specchio passivo del mondo, ma uno strumento attivo, forgiato dal sapere, dalla cultura e dalla memoria.
Già Aristotele, più di due millenni fa, sosteneva nel De Anima che i sensi, e in particolare l’occhio, non sono meri ricettori passivi ma “interpreti” dell’esperienza. L’organo della vista riceve “la forma senza la materia”, come la cera che conserva l’impronta dell’anello senza contenere il metallo. In altre parole, vedere significa decifrare, dare significato, selezionare.
Dal sacro all’inconscio: percezione come proiezione
In ambito spirituale, la percezione è spesso intesa come riflesso del mondo interiore. Il maestro indiano Sai Baba ripeteva:
“Il mondo esterno è solo un riflesso di quello interiore.”
Similmente, Osho, mistico e filosofo, osservava:
“Tu non vedi mai ciò che è. Vedi solo ciò che sei.”
In questa prospettiva, la realtà visibile non è altro che una proiezione della coscienza, modellata da desideri, paure, abitudini. La visione vera — dicono — nasce solo quando si dissolve l’ego e si spezza il condizionamento.
Sul versante psicoanalitico, Jacques Lacan ha radicalizzato questa intuizione: per lui, non vediamo mai “il reale”, ma solo ciò che è già stato simbolizzato e strutturato attraverso il linguaggio. Lo sguardo, sostiene Lacan, è sempre contaminato dal desiderio, e l’oggetto della percezione è ciò che manca, non ciò che si presenta. La realtà, in fondo, è “una costruzione del discorso”.
Quando il cinema smaschera l’illusione
Anche il cinema ha saputo mostrare, in forme potentemente narrative e visive, che la realtà è una questione di sguardo.
In “Rashomon” (1950) di Akira Kurosawa, lo stesso evento è raccontato da più personaggi, ognuno con una versione contraddittoria. Non esiste una verità oggettiva: solo prospettive soggettive, filtrate da paure, colpa, desiderio. È la traduzione cinematografica della domanda: che cosa vediamo, davvero?
Federico Fellini, con film come “8½” o “La città delle donne”, dissolve i confini tra percezione e immaginazione: l’inconscio invade la realtà visibile, e il mondo visto dal protagonista è un caleidoscopio di simboli, sogni e memorie.
David Lynch, maestro della dissonanza percettiva, va oltre: in “Mulholland Drive” o “Inland Empire”, il confine tra sogno, allucinazione e realtà si spezza. Lo spettatore stesso è trascinato in una percezione ambigua, dove vedere diventa esperienza inquietante, quasi perturbante.
Infine, Christopher Nolan, in film come “Inception” o “Memento”, costruisce universi percettivi in cui tempo, memoria e coscienza si piegano. Lo spettatore assiste a realtà sovrapposte, vissute da personaggi che non sanno se stanno sognando, ricordando o vivendo davvero.
L’occhio come interprete culturale
Dalle illusioni ottiche agli studi neuroscientifici, dalla filosofia antica al cinema contemporaneo, emerge una verità sorprendente ma sempre più innegabile: la percezione visiva non è un processo neutro, ma una costruzione attiva, culturale, personale.
Non vediamo le cose “come sono”, ma come siamo stati educati — o condizionati — a vederle. L’occhio non è uno strumento trasparente: è un interprete, un mediatore, un filtro. E ciò che chiamiamo “realtà” è spesso solo la sua interpretazione più credibile.
Conclusione
In un’epoca in cui immagini e realtà si confondono, riscoprire la natura soggettiva della percezione è un atto di consapevolezza. Lo studio sulle illusioni ci ricorda che non tutti vedono le stesse cose — anche quando guardano lo stesso oggetto.
Come diceva Goethe, “l’uomo vede solo ciò che conosce”. E conoscere meglio il nostro modo di vedere potrebbe essere il primo passo per guardare davvero il mondo, e forse, anche noi stessi.
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