«L’indifferenza, e non l’odio, è il vero contrario dell’amore.»
— Elie Wiesel
Il nostro pianeta è attraversato da guerre in ogni angolo, ma solo alcune riescono a conquistare i riflettori. I telegiornali aprono con le immagini dei bombardamenti a Gaza o delle trincee in Ucraina, i politici prendono posizione, le manifestazioni si riempiono di bandiere. Tutto il resto del mondo, invece, può continuare a morire nel silenzio. Ci sono conflitti così lunghi da sembrare paesaggio. Guerre talmente ignorate da risultare invisibili. Eppure sono lì, pulsanti, vive, feroci.
In Sudan, le milizie combattono una guerra brutale che ha già distrutto intere città, svuotato quartieri, fatto scomparire ospedali. La gente muore di fame più che di proiettili. Eppure nessuna potenza globale sembra realmente interessata a negoziare la pace. Non ci sono risoluzioni urgenti, non ci sono missioni significative. Solo dichiarazioni generiche. Il Sudan brucia e il mondo guarda da un’altra parte.
Nel Congo orientale, gruppi armati si contendono territori ricchi di coltan, cobalto e oro, mentre le città cadono sotto i colpi dei ribelli. I civili vengono uccisi, stuprati, deportati. E intanto i minerali estratti in quelle terre entrano tranquillamente nei nostri telefoni, nei computer, nelle auto elettriche. La guerra alimenta il progresso tecnologico, eppure nessuno vuole raccontarne la verità. È una guerra che fa comodo a troppi.
Nel Sahel, dal Mali al Niger, lo Stato è stato sostituito da milizie. Gruppi jihadisti controllano intere regioni. La gente vive sotto minaccia continua, in un contesto in cui le istituzioni sono crollate, i colpi di Stato si susseguono e i governi centrali hanno perso autorità. L’Europa si è ritirata, gli Stati Uniti osservano da lontano, la Russia riempie il vuoto con Wagner, la Cina investe senza domande. I civili, come sempre, restano soli.
In Myanmar, dopo il colpo di Stato, la giunta militare ha risposto alla resistenza con una repressione senza pietà. Le minoranze etniche vivono assediate, i villaggi vengono bruciati, i bambini crescono sotto le bombe. I soldati occupano scuole e chiese, i monasteri vengono saccheggiati. La comunità internazionale condanna, ma non agisce.
Ad Haiti, lo Stato è crollato. Le bande armate controllano i quartieri, i civili non escono più di casa. Non è una guerra dichiarata, ma è una guerra a tutti gli effetti. Le famiglie vivono nella paura, senza acqua, senza cure, senza cibo. Il mondo guarda ma non interviene. Non c’è petrolio da proteggere, né gas da esportare.
In Yemen, la guerra è uscita dai titoli dei giornali ma non dalle vite delle persone. Le bombe hanno distrutto città intere. Le sanzioni hanno sigillato i porti. Le alleanze hanno bloccato ogni via di uscita. Milioni di persone sopravvivono in campi profughi, tra malattie, fame e disperazione. La tregua è fragile, e nessuno ha davvero voglia di sostenerla. Il mondo ha voltato pagina.
E ci sono ancora le guerre senza nome: nel Mozambico settentrionale, nella Repubblica Centrafricana, nel Tigrè etiope, nelle zone rurali della Siria, nel Kashmir, nell’interno della Libia. Sono conflitti a bassa intensità e a lunga durata. Non fanno notizia, non fanno audience, ma continuano a uccidere. Giorno dopo giorno. In silenzio.
In mezzo a tutto questo, i grandi attori globali giocano la loro partita.
Gli Stati Uniti selezionano attentamente dove intervenire. Difendono Israele, sostengono l’Ucraina, ma ignorano il Sudan, il Congo, il Sahel. Dove non c’è una minaccia diretta alla sicurezza o una competizione con la Cina o la Russia, lasciano che le crisi si aggravino.
La Russia alimenta instabilità dove può trarne vantaggio: in Africa fornisce armi, in Medio Oriente sostiene regimi. Non costruisce pace, costruisce alleanze alternative.
La Cina procede in silenzio. Non invia eserciti, ma stringe accordi. Non impone condizioni, ma costruisce presenza.
L’Europa, schiacciata dalle sue contraddizioni interne, resta bloccata tra interventi umanitari insufficienti e una politica estera sempre più marginale.
Nel frattempo, mentre milioni di persone vivono in guerra, le nazioni più ricche spendono cifre colossali per armarsi.
Dopo anni di pressioni dell’amministrazione Trump, i paesi NATO hanno accettato di aumentare le spese militari fino a raggiungere circa un trilione di dollari l’anno. Una cifra che potrebbe cambiare la faccia del mondo se solo fosse usata per costruire anziché distruggere.
Con quei fondi si potrebbero finanziare programmi per lo sviluppo sostenibile, sistemi sanitari per i paesi in crisi, mediazioni di pace, ricostruzioni post-belliche, campagne di educazione, giustizia internazionale, sicurezza alimentare.
Si potrebbero disinnescare conflitti prima che esplodano.
Ma la sicurezza viene ancora letta in chiave militare. Come se più missili significassero più pace. Come se i carri armati garantissero stabilità. Come se la difesa fosse solo una questione di eserciti e non di dignità, diritti, prevenzione, giustizia.
Tutto questo ci interroga.
Come è possibile che l’umanità accetti di convivere con decine di guerre dimenticate?
Come si è arrivati a considerare normali conflitti che continuano da decenni, in paesi che non contano abbastanza per far rumore?
Forse la risposta è che siamo diventati spettatori selettivi.
Piangiamo dove ci sentiamo coinvolti. Ci indigniamo solo dove ci è stato detto di farlo. Ma le guerre ignorate non sono meno reali. Le vittime non valgono meno perché nascono in un villaggio sconosciuto.
Ricordare non basta. Ma è un inizio. Raccontare, denunciare, dare voce.
Perché ogni guerra dimenticata è una guerra che abbiamo autorizzato a durare.
Perché nessuna pace sarà mai completa se continueremo a scegliere quali vite meritano attenzione.
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