(con riferimenti a Hannah Arendt e Rodolfo Sacco)
Il viaggio è molto più che uno spostamento geografico: è un’esperienza trasformativa, un attraversamento dell’alterità che modifica chi parte e chi accoglie. In una società globalizzata, segnata da flussi migratori, crisi umanitarie e mobilità permanente, il viaggio si intreccia alla vita come ricerca di senso e di riconoscimento. È in questo contesto che assume rilievo il concetto di interculturalità, intesa non solo come coesistenza pacifica, ma come incontro dinamico tra identità differenti.
Hannah Arendt, nella sua opera Vita activa, sottolinea che “la pluralità è la condizione fondamentale dell’azione e del discorso”: viviamo sempre “tra gli altri”, in un mondo comune. L’interculturalità, allora, è parte costitutiva dell’esistenza umana, e non una condizione eccezionale. Essa implica la capacità di riconoscere che l’altro è portatore di un mondo, di una storia, di un linguaggio che merita ascolto.
Ma affinché questo incontro sia realmente possibile, è necessario un ponte umano e professionale tra le differenze: questo è il ruolo della mediazione interculturale.
Il mediatore interculturale è una figura chiave nelle società multiculturali: favorisce la comunicazione tra migranti e istituzioni, traduce non solo parole ma codici culturali, previene i conflitti, costruisce fiducia. È un attore della pluralità, colui o colei che rende visibile l’invisibile. La sua presenza consente di trasformare la differenza da barriera in risorsa, da estraneità in legame.
Come afferma Rodolfo Sacco, “le culture giuridiche, come tutte le culture, sono il risultato di stratificazioni, influenze, contaminazioni”. Questo vale anche per la convivenza sociale. La mediazione interculturale si fonda su questo principio: ogni cultura è porosa, nessuna identità è chiusa in sé. L’intervento del mediatore serve dunque a facilitare l’incontro, evitando che le istituzioni parlino un linguaggio inaccessibile, o peggio, ostile, per chi arriva da lontano.
Inoltre, la mediazione è atto politico nel senso arendtiano: consente di agire nello spazio pubblico, di creare relazioni, di partecipare alla costruzione del mondo comune. Arendt, riflettendo sull’esperienza degli apolidi e dei rifugiati, denuncia la perdita del “diritto ad avere diritti”: il mediatore contribuisce proprio a restaurare questo diritto, a riconoscere dignità a chi spesso è visto solo come problema o emergenza.
In conclusione, viaggio, vita e interculturalità sono profondamente intrecciati, e la mediazione interculturale rappresenta lo strumento attraverso cui questi elementi si traducono in pratiche concrete di convivenza. Il mediatore è colui che abita le frontiere e ne fa spazi di relazione. Grazie al suo lavoro, il pluralismo non resta solo un ideale, ma diventa realtà vissuta.
—
Bibliografia essenziale
Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 1994.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 2004.
Rodolfo Sacco, Tra universalismo dei diritti e pluralità culturale, in «Rivista di filosofia del diritto», 2012.
Rodolfo Sacco, Introduzione al diritto comparato, UTET, 1992.
Laura Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, Laterza, 2007.
Ugo Melchionda, La mediazione interculturale in Italia, FrancoAngeli, 2010.
pH Pixabay senza royalty