di Carlo di Stanislao

“Quando il bisogno di illusione è profondo, una gran quantità di intelligenza può essere impiegata nel non capire nulla.” — Saul Bellow

C’è una strana ricorrenza nella storia culturale dell’Occidente: l’alleanza silenziosa – e talvolta rumorosa – tra una parte significativa dell’élite intellettuale e alcuni dei regimi più repressivi della storia. Non si tratta solo di ingenuità, o di una mal riposta fiducia nel “progresso storico”. Si tratta di qualcosa di più profondo e, forse, più inquietante: un bisogno esistenziale di identificarsi non con la libertà, ma con la trasgressione; non con la verità, ma con l’eresia ideologica.

Per un certo tipo di intellettuale, l’Occidente rappresenta un sistema colpevole e irredimibile. La democrazia liberale non è un traguardo, ma una finzione ipocrita. Le sue libertà – di parola, di culto, di impresa – sono viste come maschere del dominio capitalistico, dell’imperialismo, della supremazia bianca. Da qui il riflesso automatico: se qualcosa si oppone all’Occidente, allora deve contenere in sé un barlume di verità, una scintilla di giustizia, un’eco di redenzione.

Non importa quanto brutale, quanto intollerante, quanto sanguinario possa essere quel “qualcosa”. Ciò che conta è che dica no a ciò che l’intellettuale ha imparato a detestare: gli Stati Uniti, il liberalismo, Israele, la NATO, la società aperta.

Questa forma di rifiuto non è nuova. Michel Foucault, tra i più brillanti filosofi del Novecento, rimase incantato dalla “rivoluzione spirituale” di Khomeini, vedendovi un’inedita sintesi tra mistica e politica. Era il 1979. Mentre gli ayatollah preparavano la soppressione sistematica delle libertà, Foucault scriveva entusiasta che “l’anima dell’Islam è risorta”. I dissidenti venivano zittiti come “occidentalizzati”.

Günter Grass, Nobel per la letteratura, giustificava le esecuzioni sommarie ordinate dal regime sandinista in Nicaragua in nome di una “giustizia rivoluzionaria”. Gabriel García Márquez, altro Nobel, considerava Fidel Castro un amico personale. Lo ammirava per “l’amore del suo popolo”, mentre a Cuba non esistevano elezioni libere, stampa indipendente né diritto di sciopero.

E cosa dire di Jean-Paul Sartre, che ignorò volutamente i gulag sovietici e descrisse la libertà d’espressione come un “valore borghese” non sempre difendibile? Sartre giunse a dichiarare che “ogni anti-comunista è un cane”, dimenticando che milioni di vittime del comunismo non erano ideologi, ma uomini e donne che chiedevano pane, giustizia, dignità.

Questa fascinazione per il carnefice, questa ossessione per il “nemico del mio nemico”, si è ripresentata anche nel XXI secolo. Chi non ricorda gli editoriali entusiasti sul Venezuela di Chávez, “modello alternativo” all’economia neoliberale? O le giustificazioni poetiche della repressione in Cina, descritta come “armonia sociale” contro il caos occidentale?

E poi c’è Israele. Criticare Israele, come ogni stato democratico, è legittimo. Ma ciò che si osserva non è semplice critica: è una demonizzazione sistematica, una costruzione manichea in cui Israele rappresenta il Male Assoluto, e chiunque gli si opponga – anche con metodi terroristici – viene automaticamente investito del ruolo di Resistente, Partigiano, Liberatore.

Questa logica binaria porta a un paradosso: mentre in Israele si tengono regolarmente elezioni, si manifestano opinioni opposte, si processano politici per corruzione e si garantisce libertà religiosa (persino ai nemici dello Stato), in molti paesi arabi confinanti vige la legge della sharia, le donne sono cittadine di serie B, gli oppositori politici spariscono nel nulla – ma di tutto questo si parla con circospezione, se non con silenzio.

Non si tratta di essere con Israele sempre e comunque. Non si tratta di idolatrarlo o assolverlo. Ma nel momento in cui i razzi cadono su scuole e ospedali, nel momento in cui bambini vengono presi in ostaggio da organizzazioni che celebrano la morte come martirio, occorrerebbe almeno ricordare che in un mondo mostruoso i mostri non sono mai uno solo. E chi si ostina a trovarne solo uno, in genere, lo fa perché ha deciso di non vedere gli altri.

C’è una parola per questo atteggiamento selettivo: disonestà intellettuale. È la tendenza a giudicare tutto secondo il proprio schema ideologico, ignorando sistematicamente le contraddizioni. È ciò che consente a tanti brillanti pensatori di tacere sugli omicidi di Stato in Iran, sulle torture in Siria, sui campi di rieducazione nello Xinjiang, pur di non turbare la propria narrazione.

Dietro la maschera dell’impegno politico, spesso si nasconde un desiderio più personale: sentirsi dalla parte giusta contro ciò che è percepito come il potere dominante. Ma quando questa postura diventa automatica, rituale, svuotata da ogni reale empatia verso le vittime, si trasforma in un culto sterile del “torto affascinante”.

E così il dissidente russo finisce ignorato, il curdo bombardato scompare dai radar, l’afgana lapidata non entra nei programmi televisivi. Perché non servono alla narrazione. Non confermano il mito del “resistente puro” che si oppone al male sistemico dell’Occidente.

Come scrisse George Orwell: “Essere di sinistra significa trovare inaccettabile ogni forma di tirannia, non giustificarla quando ti è ideologicamente simpatica.” Ma questa lezione è stata dimenticata. E così l’intellettuale non è più sentinella della libertà, ma spesso il suo più elegante becchino.

 

 

pH Pixabay senza royalty

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