Di Carlo di Stanislao 

“La rivoluzione è figlia della disperazione, non del fanatismo.” — Albert Camus

C’è un filo invisibile che oggi attraversa Teheran, Tel Aviv e Washington. Non è una linea diplomatica, né un’alleanza segreta: è una crepa. Si apre nei muri del consenso, si allarga nelle piazze, serpeggia nei sondaggi, diventa voce, fischio, sciopero, corteo. È il segno che l’architettura del potere vacilla non per un attacco esterno, ma per un dissenso interno che ha smesso di mormorare e comincia a urlare.

In Iran, il popolo ha perso la pazienza. La religione non consola più la fame. Il Corano non paga il pane. Un regime che si fondava sul martirio oggi teme il panettiere, il camionista, l’infermiera. A maggio, il paese si è svegliato sotto la spinta di una protesta che non ha più bisogno di slogan ideologici: basta un prezzo del carburante raddoppiato a scatenare il terremoto. Ma dietro il costo del diesel c’è molto di più: c’è la voglia, semplice e bruciante, di vivere una vita normale. Di ballare in pubblico, di scegliere cosa indossare, di dire “non credo più”. Non è una rivoluzione? Forse no. Ma è il preludio.

In Israele, la guerra è diventata una routine. Ma stavolta la routine si è rotta. Nella grande ondata di missili lanciata dall’Iran nell’aprile 2025, l’Iron Dome – lo scudo antimissilistico che per anni ha garantito ai cittadini israeliani una sensazione di invulnerabilità – ha mostrato i suoi limiti. La saturazione simultanea da più direzioni, combinata con droni kamikaze e razzi ipersonici, ha superato la capacità di risposta del sistema. Alcuni missili hanno colpito obiettivi civili a Tel Aviv, Haifa, Be’er Sheva. Le sirene non bastano più a placare l’ansia. I rifugi non bastano più a contenere la paura. Per la prima volta, anche gli israeliani delle città più centrali si sono sentiti vulnerabili.

E questo ha lasciato un’impronta profonda: la sicurezza, per anni promessa come bene assoluto, è diventata improvvisamente un’illusione. Il popolo, abituato a una difesa tecnologicamente perfetta, ha scoperto che nessun sistema è invincibile. La fiducia nel governo si è incrinata. Le domande si moltiplicano: perché non eravamo pronti? Perché nessuno ci aveva detto che l’Iron Dome ha un limite? E soprattutto: chi ci difende, se non ci difendiamo anche da noi stessi?

A questo si aggiunge la stanchezza. La guerra continua, ma non galvanizza più. Il sostegno al governo è diventato condizionato, reticente. Le divisioni interne si approfondiscono: tra laici e religiosi, tra giovani e anziani, tra chi vuole sicurezza a ogni costo e chi comincia a chiedere una vita più normale, anche se comporta qualche compromesso.

Negli Stati Uniti, dove il potere ama farsi celebrare, la parata militare per i 250 anni dell’esercito è stata offuscata da qualcos’altro: i fischi, le bandiere ribaltate, le scritte “No Kings Day”. Milioni di persone hanno riempito le strade non per festeggiare, ma per ricordare che l’autorità si deve meritare. Il presidente, tornato alla Casa Bianca dopo un’elezione controversa, si trova di fronte a un paese diviso e in fermento. I suoi numeri nei sondaggi non brillano: sotto il 45%, con una maggioranza costante che lo giudica negativamente. E mentre Wall Street galoppa, Main Street arranca. La disuguaglianza è diventata il vero virus americano. Il malessere è ovunque: tra i lavoratori, nelle università, persino nelle caserme.

Può il dissenso cambiare il mondo?
Non solo può. Lo sta già facendo. Ma non nel modo a cui eravamo abituati.

In passato, il dissenso era il carburante delle rivoluzioni: barricate, manifesti, sangue. Oggi è più sottile, più diffuso, più quotidiano. È l’impiegata iraniana che toglie il velo in ufficio. È il riservista israeliano che rifiuta di partire per una missione. È lo studente americano che filma un’aggressione della polizia e la posta online. È silenzioso ma virale. E soprattutto: è contagioso.

Questa nuova forma di dissenso sta ridisegnando le coordinate geopolitiche. Perché un governo che non controlla la sua narrazione interna perde credibilità anche all’esterno. Un leader che ignora le proteste in casa non può imporsi al tavolo delle trattative. La forza militare serve ancora, ma è meno decisiva. Conta molto di più il credito morale, la coerenza, l’ascolto.

In Iran, se la protesta continua a crescere, l’ayatollah potrebbe trovarsi più isolato dei suoi nemici esterni. In Israele, la perdita della sensazione di sicurezza potrebbe spingere a ripensare i pilastri stessi della strategia nazionale. Negli Stati Uniti, una Casa Bianca circondata dal dissenso dovrà scegliere: reprimere o cambiare.

Il paradosso è che i popoli, spesso considerati spettatori della geopolitica, stanno tornando protagonisti. Non con le armi, ma con la disobbedienza. Non con le rivoluzioni classiche, ma con la pressione costante, molecolare, implacabile.

La mappa del mondo non si ridisegna più con i carri armati. Si riscrive nei supermercati vuoti, nelle piazze gremite, nei blackout, nei fischi sotto le parate. E se i governi non ascoltano, saranno i popoli a cambiare la musica.

Il mondo non sta bruciando solo per colpa dei missili. Sta tremando perché la paura ha cambiato direzione. Ora viene da dentro.

 

pH Pixabay senza royalty

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