Di Sergio Caprini *

La presenza di figli e figlie di migranti nelle nostre scuole è da anni strutturale: secondo gli ultimi dati dell’Ufficio Statistica del Ministero dell’Istruzione e del Merito, ci sono 914.860 studenti e studentesse con cittadinanza non italiana. Bambine, bambini e adolescenti “italiani” di fatto ma non di diritto, per i quali da tempo si attende una legge che ne riconosca la piena cittadinanza.

Ius soli, ius scholae, ius culturae sono i nomi con cui si indicano le principali proposte di legge presentate negli ultimi anni in Parlamento. Lo ius culturae e lo ius scholae hanno maggiore consenso fra le forze politiche, tanto da aver avuto un iter parlamentare senza però arrivare a un esito positivo. Dai mezzi di informazione le due dizioni vengono in genere usate come sinonimi, ma c’è invece chi distingue i due percorsi, che si riferirebbero rispettivamente a chi è arrivato prima dei 12 anni e ha chi è arrivato dopo. Speriamo che si faccia chiarezza…

Una proposta di legge sulla cittadinanza basata sullo ius culturae venne approvata dalla Camera nell’ottobre del 2015, ma si arenò al Senato nel 2017. Anche lo ius scholae fu presentato in parlamento nel marzo 2018, per poi fermarsi alla Camera nel giugno 2022 in seguito alla fine del Governo Draghi.

In questi giorni si è riaperto un confronto su questo tema tra le forze politiche, con una forte eco nell’opinione pubblica. Lo Jus scholae viene correttamente sostenuto in base al principio che la scuola è il luogo in cui vengono apprese (o in cui si dovrebbero apprendere) non solo le regole della convivenza civile, ma anche le conoscenze fondamentali per la formazione dell’identità nazionale, tra le quali il possesso della lingua madre e la conoscenza della storia del Paese in cui si vive.

Ma c’è da chiedersi se questi prerequisiti per la cittadinanza italiana li posseggano tutti i nostri studenti, che pure frequentano le nostre scuole per quindici anni. C’è di che dubitarne, dati gli esiti negativi delle indagini Ocse Pisa e Invalsi sulla scuola, se non bastassero le infinite testimonianze di docenti sgomenti e le denunce contenute in numerosi libri sulla scuola. Dunque, sarebbe solo una minoranza degli allievi a potersi sentire italiani a pieno titolo e non solo anagraficamente?
Nel 2017 ebbe una forte risonanza mediatica la lettera di oltre 700 docenti universitari in cui si denunciava il fatto che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male e mostrano altre gravi carenze linguistiche, motivo per cui si chiedeva al Ministro della Pubblica Istruzione di intervenire. Nei fatti non fu data alcuna risposta concreta in merito e ancora oggi a distanza di sette anni la nostra lingua madre ha scarsa fortuna nelle aule scolastiche.

Anche la Storia deve tornare al centro dell’insegnamento, perché con essa si acquisisce la consapevolezza delle proprie radici, cioè un forte ancoraggio nella fluida dimensione della società globalizzata in cui viviamo; e, possibilmente in collaborazione con la maltrattatissima educazione civica, si comprendono le origini, l’evoluzione e l’enorme importanza della democrazia. Purtroppo, oggi non è così, dato che il peso di questa disciplina in termini di orario, programmi e rigorose verifiche è minore rispetto ad altre materie, non altrettanto importanti nella formazione di una cittadinanza consapevole ed attiva.

Proprio per riaffermare l’importanza dello studio della storia nella scuola, a giugno di quest’anno il Comitato Fiorentino per il Risorgimento e il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità hanno promosso un appello al Ministro Valditara, sottoscritto da più di 200 docenti universitari e di scuola media superiore. La Commissione nazionale per la revisione delle indicazioni nazionali delle singole materie ha preso in considerazione le proposte formulate nell’appello. È certamente un segno positivo di un rapporto di fattiva collaborazione tra istituzioni e cittadini, nella fattispecie operatori della scuola; d’altronde non può essere altrimenti, perché in merito a questioni nazionali di interesse pubblico come la scuola, la sanità, la politica estera, le infrastrutture non ci possono essere pregiudiziali di tipo ideologico, partitico, corporativo se vogliamo trovare soluzioni condivise dalla maggioranza dei cittadini.

Anche i docenti e gli studenti devono fare la loro parte: gli uni devono garantire adeguate capacità professionali in una scuola di massa e sempre più multietnica; gli altri non devono chiedere solo diritti e comprensione rispetto alle difficoltà dello studio, ma anche assumersi le loro responsabilità per i successi e per gli insuccessi scolastici.

Insomma, solo una scuola esigente può garantire che il diritto all’istruzione porti sia i figli dei migranti che i giovani italiani a far parte di una coesa comunità nazionale, non solo formalmente ma di fatto; e che l’istruzione sia la leva per un’effettiva promozione sociale e culturale di tutti gli studenti, al di là della condizione sociale o del paese di provenienza.

 

*Fiorentino, è laureato in architettura. Militante nei gruppi della sinistra rivoluzionaria (Potere Operaio), nei primi anni 70 inizia l’attività di insegnamento, prima nelle scuole medie e successivamente, abilitatosi in Storia dell’Arte, nelle scuole di indirizzo artistico. Con l’insegnamento prende progressivamente coscienza del suo ruolo professionale fuori da ogni logica ideologica, per cui si allontana dalle posizioni estremistiche di sinistra degli anni giovanili e si avvicina sempre di più a posizioni liberal-democratiche. E’ tra i fondatori, negli anni 80, della Gilda degli Insegnanti, associazione che cerca di tutelare la valenza professionale dei docenti e, nel dicembre 2005, del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. E’ vicepresidente del Comitato Fiorentino per il Risorgimento, del cui sito è direttore.

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