“I libri andrebbero scritti non quando si vuol dire qualcosa, ma quando si ha qualcosa da dire”Francis Bacon
“Non è difficile scrivere un libro, difficile è leggerlo”Luigi Malerba
Se la scienza è un “bene pubblico globale”, i risultati delle ricerche scientifiche dovrebbero essere messi liberamente a disposizione di tutti coloro che li vogliono esaminare o utilizzare. I finanziatori pubblici hanno risorse sufficienti per realizzare questo obiettivo, spesso messo anche in evidenza, ma la realtà è un po’ diversa. Per due ragioni. Sebbene molte riviste scientifiche mantengano standard elevati, troppe mancano di un adeguato controllo editoriale. Molte hanno un modesto livello di rigore e integrità. Alcune si impegnano in pratiche fraudolente. Poche osservano il più elementare dei requisiti scientifici essenziali: mostrare dati probatori in parallelo a quanto pubblicato, secondo il requisito che il mio maestro di Medicina chiamava “riproducibilità”.
E mancano norme condivise per governare il processo di diffusione del sapere. In secondo luogo, i modelli di business degli editori commerciali si accaparrano la produzione scientifica rivendendola alle istituzioni dei lettori con livelli di redditività elevati, anche superiori al 30 o 40 percento. La barriera finanziaria penalizza lettori e autori assieme, in particolare quelli che vivono nei paesi a basso e medio reddito, dove il finanziamento pubblico della scienza è assai modesto. Tutto ciò frena la comunità scientifica e lo sviluppo del sapere.
I prezzi aumentano per due motivi. La maggior parte degli autori non paga per pubblicare, poiché pagano i finanziatori del progetto di ricerca. È un azzardo morale che evita il normale controllo dei prezzi da parte del cliente. E, guardando bene, un paradosso della università di mercato. In secondo battuta, l’editoria scientifica si è evoluta da quando, mezzo secolo fa, far stampare i propri lavori era il principale ostacolo che si poneva davanti ai ricercatori. Oggi quasi ogni articolo può trovare un editore. E la sfida non è più quella di essere pubblicati, ma è diventata un’altra: essere letti.
Di fatto, la comunità scientifica non ha voce in capitolo e accetta supinamente le politiche degli editori commerciali.
Due fattori chiave determinano il comportamento individuale e istituzionale, incentivando prezzi elevati e mancanza di responsabilità. Il primo è senza dubbio il valore attribuito agli indici bibliometrici per valutare le prestazioni dei singoli. È la cultura del “pubblica o muori” che ha fatto proliferare in modo abnorme e incontrollato il numero delle pubblicazioni, gran parte delle quali nessuno legge anche se qualcuno le cita, spesso gli stessi autori per drogare la propria carriera. Il secondo è la valenza istituzionale degli indici bibliometrici, l’ossessione degli atenei per le classifiche, assecondata e spesso istigata da chi ha in mano le leve del potere, dai governi nazionali alla Commissione Europea.
Oltre agli errori metodologici, la classificazione tende a misurare qualcosa che invero non esiste, un ordinamento monodimensionale in termini di qualità di tutte le università del mondo. È straordinario che le università si siano piegate ad accettare il giudizio degli organismi commerciali per stabilire ciò che battezza una buona università. Questa scelta ha ristretto le prospettive accademiche, le ha indirizzate verso un unico modello commerciale, anziché aiutarle a sfruttare la diversità proposta dai diversi profili culturali.
Anni fa Renzo Rossi ha scritto che “non soltanto gli ingegneri o gli economisti o i fisici, ma perfino i filosofi sedotti dalla managerialità, subiscono l’attrazione fatale dei numeri, che promettono un giudizio neutrale, inconfutabile e inappellabile. Eppure sappiamo fin dai tempi di Fibonacci (1175-1235) che i numeri non sono tutto”. Non solo in ambito scientifico si scrive e si parla troppo e ci sono oltre a battaglioni di influencer schiere di divulgatori che semplificano e falsificano. L’argomento è naturalmente già stato affrontato, specie negli ultimi tempi, nefandi per l’increscioso dilagare dell’uso (e dell’abuso) dei cosiddetti social. Il grande Umberto Eco sentenziò, a tal proposito: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”
Su facebook e dintorni, schiere di “esperti” (imbecilli, Eco docet) dispensano giudizi sui più disparati argomenti del giorno. Moltitudini si sentono in diritto/dovere di sentenziare sulla dinamica del disastro del Mottarone, presumibilmente tutti laureati su youtube in ingegneria, specializzazione teleferiche e cabinovie; subito dopo, i dottorati acquisiti all’Università della Vita (cit.) in medicina generale, virologia e chimica consentono alle medesime schiere di deliziarci con illuminati consigli medici e analisi del CV 19, di solito urlati scrivendo in caps lock con mezza dozzina di punti esclamativi; recentemente le lauree acquisite su fb hanno prodotto schiere di esperti di geopolitica e scienze militari che trattano della nota crisi est europea (ma anche della situazione nell’Indo-Pacifico) al pari, anzi, meglio del direttore di Limes.
Non è finita. Nei social esistono blog più o meno seri ove si pubblicano centinaia di citazioni (di letterati, filosofi, ma anche artisti del rock o del cinema) e legioni di navigatori si industriano a riportarli, per intero o con adatto link, nella propria pagina fb; ovviamente oltre non si spingono, non sia mai detto che riportare una frase di Nietzsche comporti averne letto un’opera, o quantomeno conoscere per sommi capi il suo pensiero. Verrebbe da consigliare agli appassionati di Kant o Leopardi l’acquisto dell’opera omnia dell’autore da leggere in poltrona, magari con sottofondo di classica o di new age, con un buon bicchiere da meditazione sul tavolino.
Poi, l’italiano (eufemismo) usato per la bisogna dai novelli Quasimodo è generalmente quello che in prima elementare usavamo per scrivere i pensierini, tipo “la mamma cucina bene. Punto. A me piace il mare. Punto.”; il passo successivo, una serie di frasi più complesse, che costruivano il “tema”, pare ormai caduto in disuso. Due parole, punto. Tre parole, punto. E magari condite con l’aggettivo scoperto di recente e usato in quantità industriale, sicché tutto è “prezioso”; un post, un affetto, un amico, un risotto, uno spritz. Per non dire della terrificante usanza importata dall’uso dello smartphone, di scrivere tagliando le parole, come se il risparmio di decimi di secondi nello scrivere “tt” in luogo di “tutto” o “xkè” allungasse la vita; oltre alla scoperta del “K”, usato in luogo della C, sicché leggo (fresca di giornata) “qualkosa” e qui non c’è nemmeno, a scusante, l’accorciamento del vocabolo, siamo alla follìa. Naturalmente esistono anche moltitudini di cosiddetti analfabeti funzionali, tecnicamente in grado di leggere, ma difficilmente in grado di scrivere qualcosa di senso compiuto, non avendo più preso in mano una penna dopo la scuola dell’obbligo (sono però fruitori compulsivi dei tasti dello smart con l’italiano di cui sopra).
Si scrive troppo. E qua viene in soccorso un libriccino scritto nel 1771, dunque in epoca non sospetta: “Si scrivono cose inutili. (…) Si scrive su argomenti che bisognerebbe evitare quando non se ne ha il compito (…). Voi direte che sono autori: hanno scritto un libro. Dite, piuttosto che hanno sprecato della carta oltre ad aver perso il loro tempo. Diciamo tutt’al più – per non sembrare troppo critici – che sono rimasti gli stessi di prima. E’ questa la condizione dei fabbricanti di romanzi, di aneddoti, di racconti, di versi burleschi e licenziosi, eccetera. Rimarrà loro almeno il piacere di credersi autori” (Abate Dinouart, L’arte di tacere).
Annota ancora Dinouart in fondo al libretto, i “Principi necessari per esprimersi nei libri”, dei quali vanno ricordati almeno i primi due:
– E’ bene trattenere la penna, se non si ha da scrivere qualcosa che valga più del silenzio
– Esiste un momento per scrivere come esiste un momento per trattenere la penna
Il secondo principio fa ovviamente riferimento al noto versetto biblico “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo” (Ecclesiaste, 3,1).
L’esortazione biblica è citata già nella prima parte del libriccino, nei “Principi necessari per tacere”, con i primi due che recitano:
– E’ bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio
– Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare.
Qualcuno obietterà che, in fondo, anche lo scritto presente e gli altri miei non sono strettamente necessari. E’ vero, ma me ne rendo conto; è un vezzo e lo so. E confesso candidamente che a volte anch’io copio-incollo, di solito per burlarmi degli imbecilli di Umberto Eco, il quale, per sua fortuna ora diversamente occupato ed è esentato dall’irritarsi per le nefandezze umane.
Esce proprio mentre scrivo queste cose una ennesima biografia su Bill Gates: Billionaire, Nerd, Savior, King: Bill Gates and his quest to shape our world’ , scritto dalla giornalista del New York Times Anupreeta Das, che racconta i dettagli intimi delle relazioni del miliardario con le donne. L’agenda di Bill Gates sarebbe stata piena di “impegni” senza spiegazione e la moglie Melinda avrebbe almeno una volta cambiato l’intero staff di sicurezza del consorte perché non si fidava di loro. Ma la decisione di lasciarlo sarebbe stata presa per un altro motivo: la rivelazione dei dettagli del suo legame con Epstein il pedofilo. Ora mi chiedo: c’era bisogno di un nuovo libro per ciò che da tempo è più che chiaro?
Visualizzazioni: 99